Salò o le 120 giornate di Sodoma
(Articolo apparso nel numero 36, autunno ’99, del trimestrale “La Linea dell’Occhio”, sulla rubrica Il film più seduttivo)
Definitivamente spacciata quella fatale confusione, che mescola “seduttivo” con “rassicurante”, non resta davvero che riabbracciare l’etimo (se-ducere), cogliere l’esatto opposto di un vellicare, di un blandire, e quindi riconoscere in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini l’atto, secondo me, terminale ed estremo della cinematografia.
Se si eccettua L’Arroseur arrosé (1895) dei fratelli Lumière, solo la parodia splendida e geniale del cinema fatta da Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi (1968), in Capricci (1969), in Don Giovanni (1971), in Salomé (1972) e in Un Amleto di meno (1973), poté tentare ancora, senza Volontà e senza Rappresentazione, di rendere paradossalmente robusta la pellicola, ossia il materiale più fragile per un’arte, più fragile di un’ala di una farfalla, come disse lo stesso Pasolini: Salò o le 120 giornate di Sodoma ha saputo almeno restituire al mezzo cinematografico la sua originale decrepitezza, liquidando finalmente la smania d’intrattenimento, di consolazione di troppi, di quasi tutti i film.
Dopo la Abiura dalla “Trilogia della Vita” (giugno 1975), l’ultima opera di Pasolini illustra il passaggio dall’illusione della sessualità liberalizzata alla mercificazione del prodotto sessuale. I protagonisti di Salò simboleggiano lo sfruttamento del regime, l’anarchia degli unici depositari del verbo del potere; la differenza con lo stato democratico sta nella loro prevaricazione annunciata: «Deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità, nessuno sulla terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti!»[1].
Il baccanale fascista dei gerarchi in Salò è solo una dimostrazione menefreghista, non ha obiettivi teleologici, vive in se stesso secondo il motto “Tutto è buono quand’è eccessivo!”; in parallelo, nei contemporanei riti dionisiaci si rinvia il desiderio della conoscenza dei corpi, chi ci guida o è troppo represso, o è troppo geloso del suo dominio, da ciò ne conseguono l’indifferenza travestita dai media e la volontà di schiacciare il sesso perché non insegni il pericolo della sua libertà. Vediamo nei libertini di Salò una piccola porzione, forse più sana e autentica, del disastro odierno additato da Pasolini, quel disastro ignorato o taciuto dagli scemi neopositivisti, i quali « Non si accorgono che la liberalizzazione sessuale anziché dare leggerezza e felicità ai giovani e ai ragazzi, li ha resi infelici, chiusi, e di conseguenza stupidamente presuntuosi e aggressivi; ma di ciò addirittura non vogliono occuparsene, perché non gliene importa niente dei giovani e dei ragazzi »[2].
Ebbene, in conclusione, per chi all’arte non chiede risposte, ma emozioni, meglio se sconvolgenti, Salò, irrespirabile e mai didascalico, “seduce” per sempre!
© Marco Vignolo Gargini
[1] Il discorso del Duca, pronunciato nel film da Paolo Bonacelli.
[2] Pier Paolo Pasolini, Abiura dalla “Trilogia della Vita”, II, in Trilogia della vita, Mondadori, Milano 1987, p. 10.