Questa, come le altre, non è una recensione. Le recensioni le lascio ai recensori, peggio per loro. La mia è solo un’apertura di senso…
Due ragazzi vestiti di bianco, come tennisti a Wimbledon, facce pulite, nemmeno un filo di barba, guanti, modi educati, irritanti nel loro essere cerimoniosi, entrano in una bella casa, sconvolgono un nucleo familiare armonioso e lo annientano. Così riassunto Funny games fa pensare ad altre pellicole che trattano il tema dell’intruso distruttore. Di sicuro abbiamo le tre unità aristoteliche di tempo, spazio e azione, quasi a indicare che oltre due millenni di poetica transitano in pochi minuti…
Michael Haneke, regista austriaco, ha girato con attori americani lo stesso film che dieci anni prima aveva spaccato in due la critica e il pubblico. È un remake shot-for-shot, come lo Psyko di Gus Van Sant, ma in questo caso l’autore è il medesimo, cambiano soltanto le ambientazioni geografiche e gli attori.
Spettacolo della crudeltà? Rappresentazione del sadismo? Denuncia della gratuità della spietatezza contemporanea? Temo che l’argomento sia di competenza più dei filosofi e degli psichiatri che non dei sociologhi, ho forti dubbi che un’analisi sociale possa portare a delle risposte soddisfacenti. Mi sono dimenticato di commentare il termine funny, che in inglese ha moltissimi significati. Non indica soltanto qualcosa di divertente, ma anche di strano, buffo, insolito, bizzarro, tanto che to feel funny è un’espressione di chi manifesta una sorta di malessere. I giochi “divertenti” di questi ragazzi hanno un logica irreprensibile, si legano strettamente al linguaggio e alla realtà per poi stravolgere tutto. Le loro reazioni nascono da considerazioni che non fanno una piega, si allacciano alle reazioni delle vittime con una consequenzialità impeccabile, ed è forse questo che lascia sgomenti.
Le scene delle esecuzioni non sono mostrate direttamente nel film, tutto avviene come nella più classica delle tragedie greche: il delitto è fuori scena, è “osceno” per definizione, ma piomba all’interno del quadro e lo muta radicalmente. La domanda del capofamiglia ai ragazzi, “Perché ci fate questo?”, diventa la domanda in assoluto. Non c’è, non ci può essere risposta, gli sterminatori non sanno il perché. Niente è scontato, ma c’è solo da scontarlo. Ed ecco che viene da pensare a quanto Carmelo Bene, durante una puntata del 1994 del Maurizio Costanzo Show, ebbe a dire della vita. La vita non si comprende, come non si comprende il buio dell’opera d’arte, nata per non essere didascalica o, peggio ancora, consolatoria. Funny games non è solo un film sulla incomprensibilità della vita, sulla forza bruta e incoercibile della vita, sull’energia parossistica della vita, ma pure un tentativo di mettere a cuccia tutti i realisti, o naturalisti che dir si voglia, fautori di una riduzione dell’arte a mera traduzione della vita e della natura. Il dialogo che i ragazzi tengono in una delle scene finali sul valore della realtà nella finzione è forse fondamentale per capire il film. Non è neppure da considerare oleografico il brano musicale che apre la pellicola, il duetto Turiddu-Santuzza della Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni (“Bada, Santuzza, schiavo non sono di questa vana tua gelosia”), visto che l’epilogo tragico del melodramma del compositore livornese rientra ancora nei canoni dell’incomprensibilità della vita.
Gli attori sono straordinari, su tutti Naomi Watts e Michael Pitt, veri protagonisti della pellicola. Da sottolineare la prova di Tim Roth, che sembra richiamare nella mimica facciale l’episodio finale di Pulp Fiction.
Immagino che la visione di Funny games abbia messo sottosopra più di uno spettatore, e questo è sicuramente un pregio che va a merito di Haneke, il quale, sia detto per inciso, ci ha insegnato una volta per tutte che il cinema austriaco non è soltanto la saga di Sissi, francamente insopportabile…
© Marco Vignolo Gargini