OSCAR WILDE
IL CRITICO COME ARTISTA
Con alcune considerazioni sull’importanza del non fare niente
Titolo originale: The Critic as Artist – With some remarks upon the importance of doing nothing
Traduzione dall’originale in inglese di Marco Vignolo Gargini
ERNEST. Gilbert, tu mi sconcerti. Mi hai detto che tutta l’arte, nella sua essenza, è immorale. Ora stai per dirmi che tutto il pensiero è, nella sua essenza, pericoloso?
GILBERT. Sì, nella sfera pratica è così. La sicurezza della società sta nell’abitudine e nell’istinto incosciente, e la base della stabilità della società, in quanto organismo sano, è l’assenza completa di qualsiasi tipo di intelligenza tra i suoi membri. La grande maggioranza delle persone che è pienamente consapevole di questo, si allinea naturalmente dalla parte di quello splendido sistema che la eleva alla dignità di macchine, e infierisce così selvaggiamente contro l’intrusione della facoltà intellettuale in qualsiasi questione che riguardi la vita, da far venire la tentazione di definire l’uomo come un animale razionale che perde sempre la sua calma quando è chiamato ad agire in accordo con i dettati della ragione. Ma, bando alla sfera pratica e non diciamo più niente dei malvagi filantropi che, veramente, sarà bene lasciare alla mercé del saggio dagli occhi a mandorla del Fiume Giallo, Chuang Tsû il sapiente, il quale ha dimostrato che tali benintenzionati e fastidiosi ficcanaso hanno distrutto la virtù semplice e spontanea che v’è nell’uomo. Essi sono un argomento tedioso, e io sono ansioso di tornare alla sfera nella quale la critica è libera.
ERNEST. La sfera dell’intelletto?
GILBERT. Sì. Rammenti che io ho parlato del critico che è a suo modo creativo come l’artista, la cui opera, infatti, può aver valore soltanto relativamente al fatto che al critico un suggerimento per una nuova vena di pensiero e sentimento ch’egli può realizzare con eguale, o forse più grande, distinzione di forma, e, attraverso l’uso di un mezzo inedito di espressione, rendere bella in modo diverso e più perfetta. Bene, tu sembri un po’ scettico su questa teoria. Ma forse ti ho giudicato male?
ERNEST. Non sono proprio scettico riguardo questo, ma debbo ammettere che ho la netta impressione che una tale opera del critico, come tu la descrivi – e tale opere bisogna ammettere senza dubbio che sia creativa – sia, di necessità, puramente soggettiva, laddove le più grandi opere sono sempre oggettive, oggettive e impersonali.
GILBERT. La differenza tra opera oggettiva e soggettiva è soltanto una questione di forma esterna. È accidentale, non essenziale. Tutta la creazione artistica è assolutamente soggettiva. Lo stesso paesaggio che Corot ammirò, come disse lui stesso, non era che uno stato d’animo della sua mente; e quelle grandi figure del teatro greco o inglese che a noi sembrano possedere di per sé un’autentica esistenza, separata dai poeti che le hanno modellate e foggiate, sono, nella loro ultima analisi, semplicemente i poeti medesimi, non quali pensavano di essere, ma quali pensavano di non essere; e grazie a quel pensiero avvenne in modo strano, seppur per un solo momento, che lo fossero davvero. Poiché noi non possiamo da soli uscirne, né nella creazione può esservi ciò che non sussisteva nel creatore. Anzi, direi che una creazione più sembra essere oggettiva, più in realtà è soggettiva. Può darsi che Shakespeare abbia incontrato Rosencrantz and Guildenstern nelle bianche strade di Londra, o visto i servitori delle casate rivali azzannarsi il pollice l’un l’altro sulla pubblica piazza; ma Amleto sorse dalla sua anima, e Romeo dalla sua passione. Vi sono elementi della sua natura a cui egli dette una forma visiva, impulsi che si agitavano così forte in lui da dover, per così dire, tollerarli per porre in atto la loro energia, non sul piano inferiore della vita autentica, dove sarebbero stati ostacolati e costretti e così resi imperfetti, ma sul piano dell’immaginazione dell’arte in cui l’Amore può trovare davvero nella Morte la sua locupletazione, dove si può infilzare lo spione dietro l’arazzo, e lottare in un fresco sepolcro, e far bere a un re colpevole il suo danno ordito, e vedere lo spettro del proprio padre, sotto la luce vaga della luna, avanzare tra la nebbia in armatura tutta d’acciaio da spalto a spalto. L’azione essendo limitata avrebbe lasciato Shakespeare insoddisfatto e inespresso; e proprio come fu in grado di compiere tutto dal momento che non fece niente, è perché egli non ci parla mai di se stesso nei suoi drammi che i suoi drammi ce lo rivelano assolutamente, e ci mostrano la sua vera natura e il temperamento assai più completo di quanto facciano quegli stessi strani e squisiti sonetti, nei quali egli denuda davanti a occhi di cristallo il segreto recesso del suo cuore. Sì la forma oggettiva è la più soggettiva in sostanza. L’uomo è meno se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera, e vi dirà la verità.
ERNEST. Il critico, dunque, essendo limitato alla forma soggettiva, sarà necessariamente meno abile ad esprimere se stesso in modo pieno rispetto all’artista, che ha sempre a disposizione le forme che sono impersonali e obiettive.
GILBERT. Non necessariamente, e di certo per nulla se riconosce che ogni modo di critica è, nel suo più alto sviluppo, semplicemente un umore, e che noi non siamo mai fedeli a noi stessi di quando siamo incoerenti. Il critico estetico, costante solo al principio della bellezza in tutte le cose, sarà sempre alla ricerca di impressioni fresche, spillando alla varie scuole il segreto del loro fascino, inchinandosi, magari, davanti ad altari stranieri, o sorridendo, se così è il suo gusto, a strani nuovi dei. Quello che gli altri chiamano il loro passato non ha, senza dubbio, nulla a che fare con loro, ma non ha assolutamente nulla a che fare con sé. L’uomo che rimira il suo passato è un uomo che merita di non avere un futuro a cui guardare. Quando s’è trovata un’espressione per un umore, non se ne vuole più sapere. Tu ridi; ma credimi, è così. Ieri era il Realismo che affascinava. Da esso si ricavava quel nouveau frisson che era il suo scopo produrre. Lo si analizzava, lo si spiegava, e ci stancava. Al tramonto venne il luministe in pittura, e il symboliste in poesia, e lo spirito del medievalismo, quello spirito che non appartiene al tempo ma al temperamento, si destò all’improvviso nella ferita Russia, e ci commosse per un momento con il fascino del dolore. Oggi l’ultimo grido è il Romanzo, e già le foglie sono tremule nella valle, e sulle purpuree vette la bellezza cammina con agili piedi dorati. Le vecchie maniere della creazione indugiano, naturalmente. Gli artisti si autoriproducono o si riproducono a vicenda, con noiosa iterazione. Ma la critica avanza sempre, e il critico è sempre in sviluppo.
Né, ancora, il critico è realmente limitato alla forma soggettiva d’espressione. Il metodo del dramma è suo, così come il metodo dell’epos. Può adoperare la forma del dialogo, come fece colui che fece dialogare Milton con Marvel sulla natura della commedia e della tragedia, e fece discutere Sidney e Lord Brooke sulle lettere sotto le querce di Penshurst; o adottare la narrazione, come Mr. Pater ama fare, ciascuno dei cui Imaginary Portraits – non è questo il titolo del libro – ci presenta, sotto la fantasiosa guida della finzione, un brano raffinato e squisito di critica, uno sul pittore Watteau, un altro sulla filosofia di Spinoza, un terzo sugli elementi pagani del primo Rinascimento, e l’ultimo, e sotto alcuni aspetti il più suggestivo, sulla fonte di quell’Aufklärung, quell’illuminismo che albeggiò in Germania lo scorso secolo, e al quale tutta la nostra cultura deve un debito così grande. Il dialogo, certamente, quella meravigliosa forma letteraria che, da Platone a Luciano, e da Luciano a Giordano Bruno, e da Bruno a quel gran vecchio pagano del quale Carlyle tanto si dilettò, i critici creativi del mondo hanno sempre impiegata, non potrà mai perdere per il pensatore la sua attrattiva come modo di espressione. Attraverso i suoi mezzi egli può sia rivelare che nascondere se stesso, e dare forma a ogni fantasia, e realtà a ogni umore. Attraverso i suoi mezzi egli può esibire l’oggetto da ogni punto di vista, e mostrarcelo a tutto tondo, come uno scultore ci mostra le cose, ottenendo in questa materia tutta la ricchezza e la realtà di effetto che derivano da quelle questioni secondarie che improvvisamente sono suggerite dall’idea centrale nel suo progredire, e davvero illuminano l’idea con più compiutezza, da quei felici ripensamenti che danno una completezza più piena allo schema centrale, e pure trasmettono qualcosa del fascino delicato del caso.
ERNEST. Per suo mezzo, anche, può inventare un antagonista immaginario, e convertirlo quando lo desidera con un assurdo argomento sofistico.
GILBERT. Ah! è facile convertire gli altri. Ma così difficile convertire se stessi. Per arrivare a ciò che davvero si crede, si deve parlare per bocche diverse dalla propria. Per conoscere la verità occorre immaginare miriadi di falsità. Perché che cos’è la Verità? In materia di religione, è semplicemente l’opinione che è sopravvissuta. In materia di scienza, è l’ultima sensazione. In materia d’arte è l’ultimo umore di un singolo. E ora vedi, Ernest, che il critico ha a sua disposizione tante forme oggettive d’espressione quante ne ha l’artista. Ruskin mise la sua critica in prosa fantastica, ed è superbo nelle sue variazioni e contraddizioni; e Browning mise la sua nel blank verse e portò i pittori e i poeti a concederci il loro segreto; e M. Renan usa il dialogo, e Mr. Pater la narrativa, e Rossetti tradusse nella musica dei sonetti i colori di Giorgione e il disegno di Ingres, e pure il suo disegno e il suo colore, percependo, con l’istinto di uno che aveva molti modi di espressione, che l’arte definitiva è la letteratura, e il mezzo più raffinato e più pieno è quello delle parole.