IL ROSA E IL NERO (1964)
da “Lo spettatore addormentato”, Rizzoli, Milano 1982, pp. 309-312
Voi sapete che l’ultimo rifugio degli imbecilli è di trattare la persone che essi non capiscono o dalle quali si sentono lontani, per scelta, gusti, abitudini e carriera, da intellettuali da caffè. Questo non lascia intendere che loro si sentano intellettuali da ristorante o di qualsiasi posto dove si mangia. Per avere approvato il lavoro che Carmelo Bene svolge da anni sul palcoscenico, in pura perdita, quest’accusa mi è stata rivolta spesso anche per lettera. Senza turbarmi troppo, poiché nasconde una certa verità cronistica.
Le più belle serate per anni le ho trascorse nei caffè con persone la di cui amicizia era già un giudizio, Cardarelli, Barilli, Longanesi. Mi è rimasto il debole di preferire il caffè al salotto, al club, alla sezione e all’anticamera. E il piacere di decidere un po’ dei miei gusti anche teatrali.
Non nascondo che il teatro di Carmelo Bene mi interessa proprio in quanto ripropone lo spettacolo come emanazione tirannica e istrionica dell’attore, cioè come un inconscio ritorno alle origini di quest’arte. In tanta accademia registica e scenografica, in tanto teatro intimidatorio e punitivo, la proposte di Carmelo Bene hanno semmai il torto di arrivare per divertirci.
L’ultimo suo spettacolo, Il Rosa e il nero si dà alle Muse, sfuggo alla prima che richiama curiosi particolari, e vado a una delle repliche, nella sala che odora di incenso, con un altoparlante che trasmette le critiche negative già apparse sui giornali. Nell’intervallo vado a salutare gli amici, Maria Monti, Lydia Mancinelli, la Ferrari, Spadaccino; e vedo che si divertono anch’essi al loro giuoco proprio perché portato al limite di una ricerca liberatoria, ma senza improvvisazioni anzi con uno studio che l’affranca dal sospetto di parodia. Per il Rosa e il nero il riduttore si è ispirato a un romanzo di G.M. Lewis scrittore vissuto a cavallo tra il sette e l’ottocento; un romanzaccio la cui lettura ho lasciato dopo le prime pagine. Va bene che non sono riuscito a leggere nemmeno i romanzi della signora Radcliffe né quelli di Sheridan Le Fanu, o Frankenstein, e in genere tutti i racconti del terrore che invece di spaventarmi mi deprimono.
Carmelo Bene è nato a Lecce, nel barocco più fiorito dove sopravvive un artigiano di santuari di cartapesta e dove Giuseppe (da Copertino) fu elevato alla gloria degli altari grazie ai voti che spiccava in Chiesa, evoluendo elegantemente sui fedeli, riscoprendo che la meraviglia e il fine non sono del poeta ma dell’attore. Per capirlo, basta osservare come ama avvoltolarsi nelle sue stoffe damascate e obbligarvi i suoi compagni di scena: sembrano attori ambulanti capitati di notte in un negozio di arredi sacri. Senza un velo di ironia la cosa sarebbe certo insopportabile. Ma qui il gioco scavalca Lewis e gli esteti, diventa furia e sistema. Ci sono dei punti in cui arriva allo scherzo più aperto. Un esempio è Maria Monti, religiosa innamorata, che canta a lungo nonsense e distorce la sua bella voce di cantante impegnata in virtuosismi da gallina. O la petulanza di quel monaco che per la durata del primo tempo ripete una sola battuta, chiamando Agnese, provocando nello spettatore la gamma delle reazioni, dal divertimento all’indignazione fino alla resa. O, meglio di tutti, la satira del romanzo epistolare del diciottesimo secolo, qui data con un monaco e una monaca che si cambiano a vista una certa quantità di lettere, una delle quali, chissà perché, è un invito alla presentazione di un libro di Alfonso Gatto.